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The taste of the listener. History of music too commercial.

Tratto da Rockit (intervista di Francesco Fusaro)

Come si diventa uno dei più grandi dj del mondo? L’abbiamo chiesto a Dj Ralf, che con oltre trent’anni di carriera ha visto proprio tutto: i centri sociali, i rave, la rubrica su Discoid, i grandi festival e la club culture, la crisi del supporto, l’avvento dei social network. Ci racconta di quando metteva Barry White nelle cantine e di quando il suo interesse per la musica house fu additato come un tradimento dai compagni dei centri sociali. L’intervista di Francesco Fusaro.

Partiamo dalla tua presenza all’edizione di quest’anno del MI AMI Festival. Come ti sembra trovarsi a suonare per (diciamo idealmente) i frequentatori di Rockit?
Il problema della ricezione da parte del pubblico è molto interessante perché ci costringe a parlare di un presunto gusto degli ascoltatori, molto difficile da definire. Da parte mia sarebbe ridicolo che cercassi di andare incontro ad ogni costo alle aspettative di chi ci sarà quella sera. Io penso sempre alla possibilità di suonare per un pubblico mentalmente elastico, che poi è il pubblico che preferisco. Quello che trovo al Cocoricò o che viene alla serata “Bellaciao” che organizzo a Perugia. Lì ci puoi trovare il punkabbestia, quello che frequenta i rave di psy-trance o di speed-techno, l’appassionato di minimal come il cultore della garage. Un po’ di tutto, insomma. Considera che io ho una provenienza musicale variegata: nei primi anni ’80 suonavo in cantine che organizzavo insieme ai miei amici dopo esserci organizzati sotto forma di cooperative giovanili e mi capitava di spaziare dai Dead Kennedys a Barry White passando per George Clinton, con una libertà che in una discoteca tradizionale come ce n’erano allora mi sarebbe stato impossibile. Poi mi sono innamorato dell’elettronica. da quella più sperimentale a quella imparentata con la musica da ballo. Con un impostazione di questo tipo buttarmi anima e corpo nell’house e della techno fu più che naturale ma questa scelta, all’inizio, fu accolta tutt’altro che bene dai club nei quale lavoravo, cosa che non mi ha certo indotto a desistere. Ho sempre intrapreso le strade che ritenevo giuste e mi son sempre mosso nei territori musicali che mi appassionavano ed esattamente questo farò nel mio set al MI AMI. Cosa che, tra l’altro credo sia esattamente quello che ci si aspetta da me.

Ricordo che leggevo la tua rubrica sul free press Discoid che veniva distribuito nei negozi di dischi. Mi piaceva il modo in cui parlavi di quello che ti appassionava e le tue scelte musicali.
Non sei il primo che mi parla di Discoid. È stata una bella esperienza e credo di aver contribuito a formare i gusti della generazione di dj che ora ha tra i trenta e quarant’anni, offrendo loro un’angolazione, un punto di vista sulla musica che girava allora nei club e non solo.

Che mi dici invece della stagione dei centri sociali a cavallo fra ’80 e ’90? Che tipo di lascito pensi che abbiano avuto da un punto di vista culturale?
La mia storia con i centri sociali è parecchio complessa. Io li ho visti nascere e li ho vissuti in prima persona anche se da un certo punto in poi, in qualche modo ne sono stato escluso. In quegli anni l’house era considerata facile e probabilmente troppo orecchiabile dai frequentatori dei centri sociali che erano orientati a firme sonore più radicali ed estreme. Questo fatto mi ha provocato sempre un certo disappunto, perché i valori propugnati dai centri sociali sono da sempre molto affini al mio modo di intendere la vita. A volte il problema sono i preconcetti. Pensa che nell’84 subii una sorta di processo da parte di appartenenti di un famoso Centro Sociale, nel club “Norman il Presidente” che, tra le altre cose, avevo contribuito a fondare insieme ad altri appassionati di musica e di clubbing della mia città, Perugia. Io all’epoca suonavo soprattutto certo hip hop molto radicale, tra l’altro, rare groove e la prima house mista ai classici disco meno scontati e commerciali. Ricordo che mi chiamarono ed una compagna (mi piace chiamarla così, proprio così) mi chiese testualmente: “Ma tu come ti poni nei confronti della musica che suoni?”. (ride) Io, cosa vuoi, le risposi: “Mah, non so…Di solito mi pongo in piedi davanti al mixer, se sono particolarmente stanco o ubriaco mi siedo”. Apriti cielo! La cosa buffa è che nel giro di pochi mesi molti di coloro che in quella stanza mi guardavano in cagnesco considerandomi un traditore, sostenitore di musica commerciale, strumento del capitalismo, me li son trovati in pista a godere come matti muovendo il culo al ritmo della cassa in quattro. In realtà gli spazi alternativi, quando cominciarono ad aprirei ai party, lo fecero percorrendo terreni sonori piuttosto duri legati all’hard core, alla gabber ed alla techno più estrema. Solo negli ultimi dieci anni si sono aperti a suoni, diciamo, meno aggressivi, che in genere prediligo. A parte tutto, io ritengo l’esperienza dei centri sociali fondamentale ed assolutamente formativa. Le mie esperienze, legate a serate al Leonkavallo, al Brancaleone, al Link o al Rivolta le ritengo bellissime e molto importanti per me.

Successivamente si è imposto anche nel mondo elettronico il modello del grande festival, legato soprattutto al recente suono edm. Che cosa ne pensi?
Beh, credo che il modello del festival nel mondo dell’elettronica sia precedente al fenomeno dell’EDM. Mi riferisco ai rave dei primi anni 90, ad avvenimenti epocali come la Love Parade di Berlino, tanto per fare un esempio. Trovo che quella del festival sia ormai una dimensione imprescindibile per uno che fa il mio mestiere, così come fondamentale rimane l’atmosfera intima e raccolta del piccolo club, dove l’esigenza di stimolare costantemente la produzione di adrenalina è minore e dove si può indulgere maggiormente in forme sonore più raffinate e fini. Sono due realtà allo stesso modo eccitanti ed importanti ed una non esclude l’altra. L’EDM non è il mio genere preferito ma non ne nego l’importanza. Non c’è nessuno più ecumenico di me in campo musicale. Ogni sound ha la sua dignità e non si può pretendere che uno valga per ogni essere umano. Dall’elettronica più radicale, al liscio, tutto ha diritto di avere rispetto e spazio se ha un pubblico e pure se non ne ha.

Il fenomeno elettronico di riferimento negli ultimi anni si è chiamato dubstep, con tutti i suoi derivati. Hai seguito un po’ quel tipo di suono?
Sì, quando cominciarono ad uscire le prime cose le inserii subito nei miei dj set soprattutto in apertura alla serata. A me piace suonare a lungo e al Cocoricò mi capita spesso di aprire e chiudere una serata, quindi quel tipo di suono era perfetto per iniziare. Certo, come già dicevo prima, se mi fossi messo a seguire pedissequamente la scena sarei sicuramente passato per ridicolo. In generale i dj che seguono le mode musicali in modo calligrafico non mi piacciono affatto. Sai, quelli che se c’è la minimal suonano la minimal, se va il suono di Chicago tutti Ghetto House, se vanno i rumeni, tutti a scimmiottare loro. È ovvio e fa parte del mestiere che ci sia un’evoluzione personale. Devo divertirmi prima di tutto io durante un dj set e se non provassi a fare cose nuove o diverse sacrificherei la piacevolezza di questo mestiere, però le evoluzioni bisogna farle convivere armonicamente col proprio stile. Trovare dei punti di contatto Ecco, se c’è uno stile che un dj deve ricercare, è semplicemente, il proprio stile. Io non mi sono mai sentito sacerdote di un genere. Quella dell’ultrà musicale mi è sempre sembrata una brutta mentalità e mi piace pensare che coloro che mi trovo davanti , oltre che alla mia ricerca ed evoluzione sentano il mio tocco che, per quanto possa piacere o meno, è mio ed unico.

Come si inserisce Internet in questo discorso secondo te?
Guarda, io credo che i social network abbiano avuto un ruolo importantissimo nella crescita culturale e nella conoscenza del genere umano. D’altra parte ha alimentato un certo clima di faziosità che si ritrova nella musica come anche altrove. Mi capita di intercettare un clima di odio tra gruppi che si scontrano frontalmente, tra ultras di questo o di quel genere musicale come se si trattasse di sostenitori di squadre di calcio antagoniste tra loro ed è per questo che ad esempio su Facebook mi pongo con una comunicazione piuttosto asettica. Sono anche su Twitter e lì il mio stile è più sul genere Discoid, se vuoi. Io auspico francamente che si riesca a trovare una giusta via di mezzo in seguito a questa ubriacatura di Internet alla quale abbiamo assistito in questi anni e che permane tutt’ora.

Per quanto riguarda il discorso supporti musicali, invece?
Io, al contrario di alcuni miei colleghi, ho subito abbracciato i nuovi formati per le possibilità che davano e danno anche in termini di semplicità e velocità nel trasformare una registrazione sonora in un oggetto d’uso immediato. Pensa per esempio al cd: prima, se volevo suonare o far suonare una traccia nuova, dovevo stampare un acetato che diventava inutilizzabile dopo pochi ascolti. Ora ci sono i file di vario formato che ti permettono una verifica immediata di un brano e se ti dicessi che questo non è bello, farei come quelli che difendevano i cavalli contro il motore a scoppio. È chiaro che ora il motore a scoppio ha dimostrato tutti suoi limiti ma non possiamo dire che non sia stato rivoluzionario. Io da dj devo pensare a mettere dei gran pezzi e se li ho non riesco ad aspettare che vengano stampati sul vinile per suonarli. L’attitudine è la stessa dei tempi in cui, se volevo un disco, me lo andavo a prendere pure in bicicletta guarda! (ride) Non sai quanti viaggi fatti per esempio a Londra esclusivamente per procurarsi quella traccia bomba che non si riusciva a trovare da nessun’altra parte. Penso insomma che la tecnologia abbia semplificato la via del talento che prima era necessariamente legata anche ad un discorso di prezzo e l’abbia democratizzata: quanti ragazzini bravi possono esserci stati in passato che non erano in grado di intraprendere la carriera di dj perché farlo costava un capitale? Io ho sentito bravi dj con il pc e pessimi dj con i vinili perché è il modo in cui si accostano i pezzi che fa il buon dj, e non il supporto che usa. Io amo i vinili e li compro da più di trent’anni ma un dj non è un’equilibrista e non deve incantare solo per come mette a tempo i vinili ma per quanto è bella e coinvolgente la mirica che propone ed un disco brutto è brutto anche quando si presenta in forma di plastica nera circolare.

Tu infatti hai una lunga e ininterrotta carriera alle spalle. Ci sono molti dj della tua generazione o con qualche anno in meno che non si sentono più.
Questa situazione è davvero assurda. Non immagini quanti djs eccezionali stiano a casa quando potrebbero dare un contributo formidabile d’energia e talento al night clubbing ed alla scena. Viviamo in un paese gerontocratico nel quale, però, di colpo chi non è giovane non vale più una sega! Penso ad esempio in politica al concetto di “rottamazione” che quando viene applicato ad un uomo, ad un individuo, è semplicemente aberrante. Non hai idea di come mi faccia incazzare sentire chiamare, offensivamente, “vecchietto” il Presidente della Repubblica. Ma torniamo al discorso artistico: come si fa a parlare di età nel mondo artistico? Ti immagini qualcuno che avesse detto a Picasso di smettere di dipingere ad una certa età?! Fatte queste considerazioni, io mi ostino ad essere positivo e vedo molti djs e produttori della mia generazione tornare ad avere la considerazione che meritano, specie all’estero. Sono sicuro che questo avverrà anche da noi.

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